A PROPOSITO DI DAT: NON ESISTE MEDICINA SENZA RELAZIONE UMANA, LIBERA E CONDIVISA FINO ALLA FINE

Sta per approdare in aula alla Camera dei Deputati il disegno di legge su “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate”, dopo che in Commissione Affari sociali si è consumata una rottura tra le posizioni dei parlamentari. Otto di questi hanno abbandonato i lavori constatando il non accoglimento pregiudiziale delle loro proposte, essendo la maggioranza interessata più a fare in fretta e a tagliare la discussione che non a elaborare un testo condiviso.

Vediamo alcuni nodi di tale proposta di legge. Nell’ articolo più dibattuto e controverso (art. 3) si parla non più di “dichiarazioni” ma di “disposizioni” di volontà anticipate, toccando tutti gli aspetti cruciali della questione: idratazione e nutrizione, obbligo del medico di mettere in pratica le volontà del paziente, modalità con cui le DAT devono essere registrate.

Viene operato un cambiamento di termini significativo (da dichiarazioni a disposizioni) assimilando il lessico a quello utilizzato per esprimere le volontà testamentarie, nelle quali la persona dispone di beni materiali che “possiede”, volontà che devono solo essere eseguite. Occorre osservare che tali disposizioni rendono decisiva una scelta assunta in un tempo/spazio altro rispetto a quello in cui sarà applicata, astraendola dalla reale situazione attuale della persona. Una scelta che viene cristallizzata indipendentemente dalla specifica malattia in atto, da ogni lettura clinica e soprattutto dalla relazione di cura.

L’aspetto più distruttivo riguarda infatti lo svuotamento di significato della relazione di cura paziente-medico, la cui centralità viene così totalmente demolita e il legame di alleanza terapeutica reso superfluo.

Appare evidente che tale normativa sia fuori dalla realtà clinica quotidiana e lontana dai bisogni delle persone e, nel suo complicato tentativo di descrivere una prassi legalistica, ignora gli elementi cognitivi ed emotivi che costituiscono la relazione di cura qui e ora, in una dinamica viva e reciproca, come la fiducia, la stima, la competenza, la responsabilità.

Infatti se si prova ad immaginare di applicare nella nostra quotidianità lavorativa quanto via via è scritto nella proposta di legge, appare evidente il lato assurdo (e anche ridicolo) insito nella pretesa di descrivere attraverso una prassi legalizzante quella che è e continua ad essere una relazione. La legge vuole formalizzare in un atto con valenza legale il contenuto di un percorso pieno di umanità che avviene nel tempo e nello spazio della relazione di cura.

Se in molti (troppi) casi ciò non accade è perché i professionisti non si assumono la responsabilità di una relazione personale, finendo così per favorire il tanto deprecato “accanimento terapeutico”. Occorre poi notare con forza che, trattandosi di una legge dello Stato, quando verrà approvata i medici saranno obbligati a rispettarla. Si comprende bene come introdurre il vincolo di obbligatorietà trasformerebbe il medico in mero esecutore di volontà precedentemente espresse. Il rapporto di cura che l’esperienza clinica insegna non è certo quello delineato in stile compromissorio “politically correct” dalle parole della relatrice della legge Donata Lenzi: “Abbiamo cercato il bilanciamento dei valori della salute e della libertà e tenuto presente che l’autodeterminazione non è senza limiti come anche l’autonomia del medico: solo incontrandosi si ha una relazione di cura che cerchiamo di mantenere anche nelle fasi finali dell’esistenza.”

È fondamentale pertanto che venga introdotta la possibilità per il medico di esprimere una obiezione di coscienza, anche se è difficoltoso descriverne la fattispecie. Deve inoltre restare aperta nell’esperienza di tutti i giorni, ovunque sia un malato, negli ospedali, nelle case di riposo, nelle abitazioni, la facoltà di considerare come atto medico o come terapia l’idratazione e la nutrizione e di rifiutare che questo aspetto debba essere sottoposto al vincolo di una norma che non può adattarsi alla estrema variabilità delle situazioni. Alla fine quale è la questione di fondo? Non anzitutto un conflitto tra liberal e conservatori, tra chi difende la morale e chi la soggettività. In gioco sono due opposte concezioni di persona, vista o come individuo o come io-in-relazione (con il tessuto di rapporti familiari, amicali, di sostegno, aiuto, cura, che ne sono i fattori costitutivi). Si impoverisce l’umanità, la concezione stessa di persona umana, se l’ideale dell’autonomia personale si riduce ad autodeterminazione – indipendenza dell’individuo. Basti pensare alle persone disabili o ai malati psichici e provare a riflettere, in concreto, su quanto la previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi rappresenti un concetto ambiguo e indefinito.

Fatto salvo il prezioso lavoro che alcuni deputati hanno svolto e continuano a svolgere, crediamo che occorra un lavoro di conoscenza e di riflessione di ognuno sulle grandi tematiche che la legge vorrebbe regolamentare. A questo lavoro vogliamo invitare tutti. Aiutiamoci a tenere ben presente che la sfida per noi, professionisti della sanità, è quella di testimoniare che l’alleanza terapeutica o, se si vuole, “l’autonomia relazionale” e “l’etica della cura”, sono più affascinanti e attraenti del suicidio assistito e della eutanasia, qualunque legge l’Italia abbia.

MEDICINA E PERSONA