La domanda che ci pone lo scandalo Pasimafi – Gazzetta di Parma

La domanda che ci pone lo scandalo Pasimafi

di Michele Brambilla

14 Maggio 2017 – 13:33

Ancora una volta Parma è stata scossa da uno scandalo così grande da oltrepassare le nostre cronache locali e finire sui media nazionali. Il “caso Pasimafi” arriva dopo il crac della Parmalat, dopo quello della giunta comunale precedente all’attuale, infine dopo quello del Parma Calcio, che invano speravamo fosse l’ultimo della serie. Commentare un’ondata di arresti è fin troppo facile. Il rischio di dire banalità è grande. Le prime due cose facili, e banali, le abbiamo già dette. E cioè. Alla corruzione siamo da molti anni abituati, ma quando le mazzette girano sulla sanità, e cioè sulla pelle dei malati, lo sconcerto, per non dire lo schifo, è particolarmente insopportabile. Questa è la prima banale verità. La seconda è che non si può fare di ogni erba un fascio, e quindi non si deve cedere allo sconforto pensando che sia tutto così come appare dalle slides mostrate lunedì scorso in conferenza stampa da Procura e Carabinieri. No, non è tutto così, anzi, la parte più rilevante della realtà è diversa: tanto per capirci, la stragrande maggioranza di chi lavora all’ospedale e all’università di Parma lavora per offrire, nel miglior modo possibile, un servizio ai cittadini. Guai a pensare che sia tutto marcio. Guai perché il pessimismo è contagioso e porta alla paralisi, ma guai soprattutto perché sarebbe un insulto alla verità.
Dette queste ovvietà – anzi ripetute queste ovvietà, perché commenti simili li stiamo facendo da giorni – vien da chiedersi se lo scandalo Pasimafi (così come gli altri scandali) non offra anche lo spunto per qualche riflessione più profonda.
Quel che infatti colpisce, quel che soprattutto ci interroga, è come sia possibile che persone che dalla vita hanno apparentemente già avuto tantissimo – primariati, cattedre universitarie, redditi alti, notorietà – rischino di rovinarsi, direi addirittura di perdersi, per avere di più, di più, ancora di più, sempre di più. Davvero mai sazio è l’animo umano? Ma poi: di quale “animo” stiamo parlando? Di quello che insegue il successo, i soldi, il potere, il prestigio sociale? L’esperienza ci dice che quell’animo è destinato a dannarsi perché mai si accontenta, mai si placa, mai è soddisfatto. Alla fine, mai è felice.
Non illudiamoci però che tutto questo riguardi solo chi è finito agli arresti o sul registro degli indagati. Riguarda anche chi dalle disgrazie altrui spera ora di trarre beneficio, guadagnando potere; e riguarda, in definitiva, tutti noi. Perché la domanda suscitata dal comportamento di chi affida a uno yacht la propria aspettativa di felicità è una domanda che scuote ciascuno di noi. Non rimuoviamola, quella domanda, dicendoci che noi di reati non ne abbiamo commessi. Non si tratta solo di reati. Si tratta di chiederci in che cosa ciascuno di noi ripone, appunto, la propria speranza di felicità. Se in cose che passano (lasciandoci sempre un desiderio inappagato) o in cose che restano. Se nell’affermazione di sé o nella capacità di sapersi donare, di saper usare il potere come servizio. Al di là delle inchieste giudiziarie, la possibilità di scivolare dovrebbe farci domandare a chi e a che cosa, ultimamente, pensiamo di appartenere. La giustizia faccia il suo corso e se qualcuno ha sbagliato dovrà pagare. Ma chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
michele.brambilla@gazzettadiparma.it